Sentenza vergognosa: assolti in appello padre e figlio che uccisero il cane a bastonate

Per il giudice non c'è stata crudeltà. Il cane sarebbe morto dopo la prima bastonata come se bastonare una sola volta anche spaccando la testa fosse lecito.

Brescia – Una sentenza vergognosa, di quelle che fa perdere fiducia nella giustizia. Nel 2014, padre, allora 80enne Antonio Fuoco, e figlio, allora 49enne, entrambi allevatori di Breno, furono individuati grazie alla testimonianza di un escursionista. A processo, quattro associazioni animaliste si erano costituite parte civile dopo la prima assoluzione perché “il fatto non sussiste”. Ma in appello avevano ottenuto giustizia con la sentenza di condanna a un anno e 9 mesi di reclusione e 1000 €. di risarcimento per le associazioni oltre 1050 € di spese legali. 

Con la sentenza di secondo grado di nuovo la sorte degli imputati si è ribaltata: “Assoluzione perché i due agirono in stato di necessità dopo l’aggressione del cane”.

Nel decreto del tribunale riportato dall’Associazione DPA, ricorsa in appello, i fatti sono chiari. In un estratto, i dati più significativi:

  • Con decreto emesso dal pubblico ministero in data 22.11.2017, Fuoco Antonio veniva citato a giudizio per rispondere dei reati contestategli. L’escursionista che verso le ore 15.00/15.15 circa di quel giorno, stava percorrendo la via Martiri di Cefalonia in compagnia aveva scorto un uomo che stava prendendo a calci un cane di piccola taglia da lui stesso tenuto al guinzaglio. 
    In conseguenza dei calci – continuava *** – il cane veniva sbalzato in avanti e proiettato in aria, e al contempo perdeva urina. Alla loro vista, però, l’uomo si era fermato per qualche attimo e questo aveva consentito al cane di liberarsi dalla presa, senza tuttavia che si allontanasse. 
    Proprio per questa ragione, l’uomo aveva ricominciato a prenderlo a calci, scaraventandolo nuovamente per aria e gridando in dialetto al suo indirizzo: “tu non hai capito, io ti ammazzo”. 
    A quel punto, *** e ***, credendo che l’aggressione al cane fosse finita, erano ritornati alla propria autovettura, parcheggiata poco indietro, ma ripassando, dopo non più di due minuti, per l’incrocio tra via Martiri di Cefalonia e via Sichelmanno avevano visto il cane a terra che ormai non si muoveva più e l’uomo che gli sferrava un altro calcio, poi gli toglieva il collare e infine si allontanava. 
    I due, allora, erano scesi dall’auto e si erano avvicinati all’animale, che era sanguinante e non dava segni di vita; peraltro, poco lontana c’era una ragazza, evidentemente testimone di quanto accaduto poco prima, che aveva uno sguardo atterrito. 
    Poco dopo, tuttavia, era ritornato l’uomo con due buste di plastica bianca e si era accostato al cane, mettendolo in uno dei sacchetti. 
    ***, allora, aveva scattato cinque foto del cane, delle tracce di sangue che aveva lasciato e dell’uomo che lo aveva ripetutamente colpito (le immagini sono state allegate agli atti). 
    E mentre *** chiamava il 113, il denunciante aveva seguito e filmato l’uomo, che nel frattempo si era incamminato con il sacchetto in mano e che all’incrocio tra via S. Margherita e via G.B. Amendola si era disfatto del cane, abbandonandolo sul ciglio della strada. 
    Sentito poco dopo a sommarie informazioni, *** confermava sostanzialmente la ricostruzione dell’accaduto offerta in denuncia di ***. 
    Intanto, gli operanti della Polizia Municipale intervenuti sul posto richiedevano l’assistenza dell’ASL, che incaricava dell’ispezione dell’animale i veterinari *** e ***, i quali, verificando che il cane fosse sprovvisto di microchip, ne constatavano la morte per frattura alle ossa craniche. 
    In particolare, dalla relazione dei due dottori presenti agli atti risulta che il cane in questione fosse una femmina di razza meticcia e di piccola taglia, dall’età di circa un anno: la testa dell’animale era “imbrattata di sangue” e si evidenziava “un grave trauma cranico caratterizzato da vari frattura alle ossa craniche”.
    (…) L’azione dell’imputato fu spietata al punto tale da non fermarsi nemmeno dinanzi all’immagine, obiettivamente penosa, del cane che gli si accostava in modo remissivo, come se non potesse ricorrere ad altri che non fosse il suo padrone per ritrovare la protezione fino a quel momento negatagli. 
    La condotta dell’imputato ha integrato, in secondo luogo, anche il reato di maltrattamento di animali, contestato nella seconda parte dell’imputazione.
    Per quanto detto dalla ***, Fuoco era solito esercitare violenza nei confronti del cane, anche senza alcun motivo che fosse direttamente riconducibile alla condotta di Chicca. 
    In questo modo, pertanto, egli inflisse all’animale sofferenze del tutto inutili e gratuite, che erano idonee a configurare un assoggettamento a “sevizie”, punito dall’art. 544 ter c.p. 

Malgrado quanto sopra, in secondo grado, per il giudice non ci fu crudeltà: il cane sarebbe morto dopo la prima bastonata, inferta. Secondo la tesi difensiva, accolta in formula piena, Fuoco lo fece solo per evitare che il meticcio facesse del male ad altre persone presenti.

Vergogna!

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